Ultimamente mi è capitato non di rado di incontrare articoli come questo (qui l'articolo originale), che rimarcano, dai toni dello stesso sembrerebbe quasi unidirezionalmente e più per orgoglio che per altre ragioni, la forte affermazione dei confini della propria nazione, e volevo fare alcune considerazioni su questo argomento dai risvolti storico-antropologici, caratterizzato dai suoi flussi, reflussi e riflessi.
Le frontiere salvano i popoli e le civiltà?
Risposta breve: le frontiere non sono una condizione necessaria per salvare popoli e civiltà, e bisognerebbe trovare un punto di equilibrio, peraltro soggettivo, tra vantaggi e svantaggi a seconda dei casi. L'esistenza di frontiere sostanzialmente dipende da chi o da che cosa si salverebbero popoli e civiltà, in base ai rapporti tra i paesi confinanti, valutando se l'uno è oggetto di una realistica minaccia di qualche tipo per l'altro, come ad esempio minaccia bellica, imposizione invasiva di culture, usi o costumi altrui (a tal proposito i confini di certi 'stati' come attualmente ne possiamo trovare in Africa, con attuali regimi militar-totalitari-caotici e colpi di stato, servono a chi di volta in volta ha in mano quelle comunità, limitando anche la bidirezionalità degli spostamenti, ossia chi entra e chi esce dai confini, ma ostacolando organismi e osservatori internazionali nei casi in cui questi farebbero bene a monitorare seriamente
l'evoluzione di certe situazioni), migrazioni di massa realisticamente insostenibili per un paese ospitante¹ (e qui il termine 'realisticamente' è relativo: ad esempio le 'esigenze', le comodità ed i consumi a cui l'uomo dell'occidente purtroppo è abituato sono ben maggiori di quelle delle genti che alimentano i flussi migratori, anche aspetti psico-sociali come la sfera personale di protezione, o pregiudizi razziali di qualcuno), ed altre ragioni del genere, oppure se i relativi rapporti sono distesi.
Poi bisogna considerare il 'tipo' di frontiere (più o meno restrittive) anche in base alle loro relazioni. Nel contesto ci sono un certo numero di variabili. Ma quello che vorrei far capire è che le identità delle collettività possono prescindere dal fatto che queste siano confinate o meno.
Questo è quanto suggeriscono alcune argomentazioni, come l'articolo da cui sono partito e che mi è capitato di leggere, dove mi sembra che in quello in sostanza l'autore leghi indissolubilmente l'esistenza delle frontiere alle identità dei popoli (valoriali, culturali, artistiche, tradizioni, usanze e quant'altro), ma pensiamo al fatto che, per centinaia di migliaia di anni, prima che gli esseri umani diventassero stanziali (sostanzialmente con l'avvento dell'agricoltura), essendo nomadi o semi-nomadi, certamente le tribù di allora avevano le loro 'identità' ossia usanze, tradizioni, riti ecc.
Come esempi di entità non confinate, ad oggi troviamo i Tuareg del deserto del Sahara, un sottogruppo dell'identità berbera, che comprende diversi gruppi etnici con stili di vita diversi, tra cui comunità nomadi, seminomadi e completamente sedentarie, spesso plasmate dalla geografia e da pressioni storiche come l'arabizzazione e il colonialismo, zingari e gitani (su cui poi si potrebbe discutere sui loro comportamenti, ma questo è un'altro discorso),
i tanti gruppi etnici in Cina (dovremmo tracciare dei confini per ognuno?), uno per tutti gli
Uiguri, e per certi versi i cinesi fuori dal loro paese, come gli ebrei; ed ancora, seppur pochissimi, esistono gruppi allo stato semi-tribale. Più identità di quelle...
Simili implicazioni sussisterebbero per altre etnie senza propri confini, ma annesse o ricomprese più o meno coercitivamente in altri stati, ad esempio i Curdi, politicamente divisi fra gli attuali stati di Turchia, Iran, Iraq e, in minor misura, Siria e Armenia, e qui il discorso si fà più delicato e complesso.
Altra considerazione, molte notevoli creazioni artistiche non sarebbero potute esistere senza 'contaminazioni' inter-culturali, per citare un esempio, rimanendo in Italia, la basilica di San Marco a Venezia, in stile romanico-bizantino-gotico-moresco, un'altro esempio è l'Alhambra a Granada in Spagna, punto di riferimento sempre dell'arte moresca. Se ci fossero stati confini invalicabili, queste notevoli creazioni artistiche non sarebbero state create.
Quindi, quando parliamo di confini, dobbiamo criticare quelle persone nella cui visione ne cogliamo un atteggiamento preconcetto di chiusura nei confronti degli altri. Nessuno è obbligato a sentirsi 'cittadino del mondo' (nella realtà immagino siano in minoranza, e analogamente conosco persone che amano molto viaggiare ma lontani dall'essere liberi da pregiudizi a questo riguardo), ma esistono anche vie di mezzo, e con il pregiudizio perderemmo opportunità di interscambi (noi europei pensiamo ad esempio a patate, pomodori, mais ed altri alimenti introdotti dalle Americhe, oramai di uso comune e poi, per come la penso io, purtroppo il petrolio, e poi il gas) e di crescita culturale reciproca, a meno che, come ho già detto, non ci si debba difendere da minacce reali provenienti da qualcuno aldilà di un confine. Se invece i confini rappresentano l'andare più in una direzione di ragionevole accoglienza, tali 'meno-frontiere' sono occasioni di arricchimento per tutte le parti coinvolte. Del resto, e questo non è poi così trascurabile, nella storia umana le frontiere son sempre state in perenne modificazione, ed è facilmente intuibile che lo saranno sempre con i loro tempi e modi, basti pensare ai vari imperi che hanno attraversato la nostra storia con i relativi stravolgimenti dei confini, come ad esempio la colonizzazione del nord America, dove gli indiani sono stati, appunto, confinati
nelle riserve dai colonizzatori. E dal punto di vista storico, gli stessi Stati sono un'istituzione caratteristica dell'età moderna e, almeno in origine, caratteristica dell'Occidente (cfr. Wikipedia).
E a mio avviso, la soluzione più 'virtuosa' è un mondo composto di amministrazioni di governo a vario titolo decentrate, repubblicane, come in Europa lo sono al loro interno ad esempio Germania, Austria, Belgio e Svizzera, ed è in piedi la questione politica di una Europa in tal senso.
Come sintesi concettuale conclusiva, il mio è un invito ad un'approccio più flessibile in materia di frontiere: i confini non devono per forza esistere, e allo stesso modo neanche devono per forza esistere solo non-confini. Né l'una né l'altra cosa.
Note
(1) pensiamo all'attualità degli ingenti flussi migratori conseguenza di conflitti e cambiamenti climatici, e questo implica portare l'attenzione delle organizzazioni internazionali per una cooperazione globale atta a fronteggiare questi problemi davvero urgenti, realtà della disperazione, come si evince dal rapporto Global Trends 2024 dell'agenzia dell'ONU UNHCR, con oltre 117 Milioni di profughi negli ultimi 10 anni, e stime per il 2050 che vanno da ulteriori 45 ai 216 milioni di migranti solo a causa dei cambiamenti climatici (clima caldo, desertificazioni).
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